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Una regia geniale. Ricordare Andrej Tarkovskij

September 29, 2014

Scrivere sulla genialità nell’arte di Andrei Tarkovskij comporta certamente l’imbarazzo della scelta. Ho scelto tre scene di tre film e questi esempi sono senz’altro molto diversi tra di loro. Una riguarda un intervento abbastanza improvvisato, la seconda è una scena preparata con molta cura, la terza è a dirittura un evento spettacolare in una piazza di fama mondiale.

I

La prima scena dura solo pochi secondi ed è parte del film sul pittore di icone Andrej Rublëv (1966). I mongoli hanno invaso la città di Vladimir coll’aiuto del principe secondogenito che volle vendicarsi di un torto subito dal fratello, il Gran Principe. Vediamo ad un certo punto dall’alto il saccheggio della cattedrale di Vladimir. Sulla piazza davanti alla chiesa si vede la massa del popolo, ripresa col rallentatore, nuvole di fumo che inondano l’inquadratura e poi, di colpo, due oche bianche scendono.

Gli studiosi americani Vida Johnson and Graham Petrie sono tra i pochi che hanno commentato questo particolare1.

L’operatore sul set, Vadim Yussov, ha raccontato che Tarkovskij in questo caso aveva tradito un loro principio: «Niente sorprese durante le riprese!» Da qualche parte aveva trovato due oche bianche, le aveva tenute nascoste e poi di colpo gettate davanti alla camera da presa al rallentatore. (Della seconda oca si vede solo la punta di un’ala.) Johnson e Petrie scrivono che questo particolare vuole sottolineare la «vulnerabilità» della gente di Vladimir2. Certamente la ripresa ha questo aspetto, ma a mio avviso in questa maniera si nega l’ambivalenza dell’immagine. Secondo Tarkovskij l’immagine poetica ha sempre la tendenza ad essere polisemica, a racchiudere in sé diversi aspetti, a volte contraddittori. In questo caso, la ripresa a volo d’uccello potrebbe significare “il modo di vedere di Dio”, allo stesso tempo Tarkovskij fa vedere il principe traditore in un movimento di salita, e quindi suggerisce nel suo stile ellittico il modo di vedere di uno scellerato.

Come si sà, esiste un “romanzo” scritto da Tarkovskij e dal collega Andron Končalovskij su cui il film doveva basarsi3, ma durante il lavoro si dovette cancellare capitoli interi. Per esempio c’era un capitolo intitolato La caccia che è sparito quasi completamente. La mia tesi è che questa scena di pochi secondi è quasi tutto quello che è rimasto di quel capitolo4. Raccontava della caccia del Gran Principe ai cigni. Probabilmente era ispirato dal famoso balletto Il lago dei cigni di Piotr Čaikovskij. Mi ricordo di aver letto questo capitolo leggermente allarmato perché la descrizione della coppia dei cigni mi destava il sospetto di “kitsch”. Nel film, poi, non è rimasto niente di tutto ciò5.

Nella scena con le oche volanti Tarkovskij è riuscito a creare prima di tutto un’immagine poetica per “esperienza” come tale – senza questa aggiunta la stessa scena non avrebbe questo significato. C’è una tale concentrazione di significati che ricorda un’affermazione di Tarkovskij nel suo libro sul cinema. Ha in mente un’immagine di estrema densità: “un mondo intero” che si rispecchia in una goccia d’acqua6. Da un lato l’immagine delle oche esprime l’estrema fugacità della vita, ma il rallentatore dà anche un tocco di maestosa solennità. (Certo, cigni sarebbero stati ancora più belli.) Poi accenna all’armonia del rapporto di coppia, distrutto dalla guerra come si vede nel film. Il brulicame del popolo in questa scena, minacciato dal saccheggio e dalla trucidazione come immagine del “mondo intero” può sembrare una visione tetra, ma, pensandoci bene, è molto vera. Tarkovskij ha realizzato un insieme inestricabile di sinistro e di luminoso7: la bellezza della creazione e il peccato terribile dell’uomo che sempre rischia di deturparla.

Per spiegare cosa lui intende per un’immagine poetica Tarkovskij ha citato ripetutamente dei haiku8 del famoso poeta giapponese Matsuo Bashō (1644-1694). Qui occorre piuttosto ricordare la poesia dei poeti più grandi della dinastia Tang Li Bai (701-762) e Du Fu (712 -770) per via della maggiore spaziosità. Nella loro poesia, molto ammirata da Bashō9, si trova il motivo del volo dei uccelli e delle nuvole; inoltre si incontra la stessa capacità di sintesi, più emotiva che intellettuale. È la capacità di cogliere in un’osservazione una profondità quasi inesauribile.10 Certamente non si devono nascondere anche le differenze: nell’immagine di Tarkovskij c’è la visione dall’alto che forse presuppone il rapporto con il cristianesimo (oltre ll’esperienza del volo con aerostato o aereo)11.- In ogni caso non vorrei far pensare che Tarkovskij sia stato influenzato dalla poesia Tang; piuttosto in questa maniera oserei indicare il livello di poesia sul quale è stato elevata in questa scena la sua “poesia del cinema”: per pura grazia (la grazia, a mio avviso, ha molto a che fare con la genialità).12

II

Il secondo esempio è molto differente dal primo per molti versi. Si tratta della scena all’inizio dello Specchio (1975) dopo il prologo e i titoli di testa. Il prologo fa vedere la guarigione ipnotica di un giovane balbuziente alla televisione: il ragazzo è improvvisamente in grado di parlare e presentarsi con brevi parole. Poi l’autore, Tarkovskij, incomincia a parlare ed a presentarsi in parole meno brevi, segue una fiumana più e meno lenta di immagini, ricordi, sogni e poesie13; ed il film termina con due urli inarticolati del giovane Tarkovskij all’ età di tre-quattro anni, forse per dire che tutto il dicible è stato detto. «Tutto il resto è silenzio.» (Amleto)

La scena in questione sulla vita della madre ha di per sé poca importanza, per il film invece sì. L’autore l’ha assistita sonnecchiando durante la siesta pomeridiana, rannicchiato insieme con la sorellina in un’amaca appesa tra gli abeti davanti ad una cascina. Nonostante l’apparente insignificanza la scena è stata preparata molto tempo prima e filmata con estrema cura. (A questo riguardo non è assolutamente paragonabile col primo esempio che era un guizzo violento, quasi fortuito e fortunato.) La preparazione remota riguardava non tanto questa scena, quanto il film nel suo insieme ed è in questo contesto tuttavia va raccontata. Per fare questo film il regista vide necessario ricostruire dalle fondamenta la casa di legno nelle vicinanze di Mosca dove negli anni trenta, prima della guerra, nella sua infanzia, la sua famiglia passava i mesi estivi. Voleva ricreare la penombra sotto gli alberi, tutta l’atmosfera di allora: vicino a questa casa doveva “risorgere” un campo di grano saraceno in fiore. Il regista e la sua squadra entrarono in conflitto con l’economia socialista di pianificazione, con i contadini del Kolchos locale, convinti che da decenni non c’era mai stato il grano saraceno in questo campo, anzi, che non si poteva crescere. L’insistenza tenace dei nostri alla fine ha vinto: il campo fiorì14. E perché tutto questo sforzo? Tarkovskij era strafelice quando ha visto l’effetto della casa e del suo ambiente sulla sua vecchia madre: dopo quarant’anni tutta l’esperienza di allora tornava vivissima. Ma non era solo la madre che lui voleva coinvolgere, voleva unire in un’unica “circolazione di sangue” tutti i collaboratori sullo set, come scriveva nelle pagine seguenti. Tutti erano rattristati quando il lavori per il film intorno alla casa finivano. Chi parla di questo regista come “solitario” oppure come “solipsista” 15 dovrebbe tenere presente questi fatti.

Lo splendore del grano saraceno in fiore, che il regista trovava tanto bello perché gli ricordava la neve, trasmette la sua luminosità a tutto il film (Il primo titolo del film allo stato di progettazione era, come si sà, Un bianco bianco giorno Belyj belyj den’16). Esso traspare, per così dire, dalle finestre, ma lo vediamo veramente, dulcis in fundo, nelle ultime immagini del film, alla sera poco prima dell’imbrunire.17

La scena all’inizio del film è preceduta, mentre scorrono i titoli di testa, da un brano musicale di Johann Sebastian Bach, il compositore preferito di Tarkovskij, il preludio sul organo del corale: «Das alte Jahr vergangen ist – Il vecchio anno è passato» (BWV 614). Il tono elegiaco della musica fa capire che ciò che segue è irrimediabilmente passato. In modo simile Tarkovskij aveva inserito nel suo film precedente Solaris (1972) un altro preludio corale di Bach dell’ Orgelbüchlein: «Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ – Ti invoco, Signore Gesù Cristo» (BWV 639) che funge anche da «’ideale riassunto’ della successiva narrazione» come dice giustamente Roberto Calabretto nel suo saggio sulla musica nei film di Tarkovskij18.

Subito dopo il regista mostra campi in parte verdi, in parte gialli, di frumento o di segale (ma non di grano turco). Essendo in Russia fa pensare che ci troviamo a fine giugno. Tra alberi con foglie mangiate (da maggiolini?) vediamo da dietro una donna graziosa, seduta su uno steccato, che fuma una sigaretta. Ha sistemato la capigliatura biondo miele in una specie di chignon19. Sopra un vestito d’estate, semplice ma non contadino, indossa una giacca di lana nera che le dona: si capisce che non è proprio caldo come in Italia in questo mese.

La voce del commentatore (Innokenty Smoktunovsky, allora il più famoso attore dell’Unione Sovietica) l’io del film, ci racconta con una certa precisione topografica che dietro al boschetto di quercie, più lontano dei campi, c’era un bivio: una via portava ad una cittadina vicina, l’altra invece portava alla loro casa estiva. Se qualcuno prendeva la viuzza verso la casa voleva dire che era uno della famiglia, magari il padre, da tempo aspettato, se invece no, voleva dire che non era lui, e che lui forse non sarebbe mai tornato.

Tarkovskij scrive nel suo libro quanto era importante per il film che l’attrice, che doveva recitare la parte della madre, non sapesse tutto del film, nemmeno del suo ruolo. Soprattutto non doveva sapere, se il padre alla fine ritornava alla famiglia o no. Tarkovskij era arrivato alla convinzione che nel cinema l’attore si trova in una situazione molto diversa dalla recita in un teatro. La cinepresa giunge così vicina che l’attore o l’attrice devono piuttosto essere che recitare, vivere loro stessi un dato stato d’animo20. L’attrice Margarita Terechova non era in grado di dare delle accentuazioni di speranza o di rassegnazione, semplicemente perché era al buio completo sul futuro sviluppo della sua storia. Queste intuizioni di Tarkovskij presuppongono certamente una sensibilità fuori dal comune. I suoi film erano agli antipodi del cinema “usa e getta” che non presume che qualcuno possa voler vedere questa merce due volte (Che spreco di celluloide però!). Tarkovskij sembra di aver lavorato sub specie eternitatis. Voleva fare sì che il film rimanesse fresco ad ogni visione, pieno di sfumature, non facilmente esauribile. Perché a differenza del dramma e della musica classica, per citare altre arti del tempo, non c’è interpretazione per far risorgere l’originale. Tutto deve essere concentrato nel momento della produzione: è tempo scolpito. È paragonabile alla letteratura che viene solamente risuscitata – o meno – dal lettore (se non è recitata). Il film ha in comune con le arti visive la concretezza sensoriale del suo essere nel mondo, per forza d’impatto le supera e con ciò ha la tendenza a sopraffare lo spettatore, il pubblico. Tarkovskij voleva rispettare il suo pubblico, salvare il mistero. Questo lo ha portato ad uno stile ellittico. Certe recitazioni nei suoi film successivi sono state giudicate poco espressive21 e di questo, a mio avviso, non sono tanto da incolpare gli attori o le attrici, ma la volontà dell’autore di stilizzare enigmaticamente. Questo ha portato a dei risultati molto sintetici, che sembrano a volte non realistici a differenza delle affermazioni verbali che nei suoi film sono qua e là troppo esplicite22.

Torniamo alla Terechova sullo steccato: vede nella lontananza un uomo che si avvicina. La donna dal viso delicato ed ora serio cela appena la tensione dell’attesa23.

L’uomo è completamente sconosciuto: si è perso, vuole andare a Tomcino, la cittadina vicina. Si rivela presto un tipo dai modi un po’ invadenti; forse è anche un tantino brillo. È Anatolij Solonizyn, l’attore preferito da Tarkovskij, perché di temperamento nervoso, facilmente influenzabile, secondo il regista l’attore ideale da cinema, preferito forse anche perché come tipo era un antieroe.24 Vuole sapere cosa fa lei da sola sullo steccato.- Porta una borsa da medico con tutti gli strumenti, ma ha dimenticato la chiave della borsa. Si avvicina molto: «Lei ha per caso un chiodo oppure un cacciavite?» A questo punto – soprattutto dopo Freud – bisogna stare all’erta. Lei non ne vuole sapere. «Ma perché è cosi nervosa?» Acchiappa la sua mano per sentire il polso: «Sono medico.» È un pretesto alquanto stupido. Lei gli fa: «E allora?» «Non disturbare, devo contare.» Adesso sembra che è lei l’importuna. Si vuole difendere: «Forse devo chiamare il mio marito?» E lui con il suo sorrisino: «Lei non ha marito, dov’è il suo anello? Ma oggigiorno solo i vecchi portano l’anello.» La cinepresa si concentra sulla grossa treccia arrotolata, secondo Natasha Synessios un’acconciatura tradizionale russa delle donne sposate quando dovevano aspettare il ritorno del marito25. Una tradizione evidentemente sconosciuta al medico. Ora si fa regalare una sigaretta. Per accendersi la sigaretta si piega molto profondamente su di lei. Lei gira la testa e guarda nella direzione dei bimbi nell’amaca. L’unico cenno che tradisce qualcosa della sua situazione difficile da giovane madre senza marito. Poi lui, con la domanda: «Ma perché è così triste?» vuole sedersi accanto a lei sulla staccionata e – patacrac! – si spezza il legno ed entrambi cadono sull’erba. Per lui è motivo di grande ilarità («È piacevole cadere con una donna bella!») ma lei non è divertita affatto. Di colpo lui si accorge della natura che lo circonda: sentiamo il ronzio degli insetti26. Lui si alza, cambia discorso, parla di una sua strana intuizione: che le piante hanno coscienza, possono sentire. “E noi diciamo cose banali.” Mentre quest’ultima affermazione senza dubbio riflette una convinzione di Tarkovskij, sarei meno sicuro se il discorso sulle piante semplicemente corrisponde alle sue convinzioni, ma siamo vicino a pensieri del regista. Troppo poco si ha finora badato al fatto che ha vissuto per due anni (!) nella taiga della Siberia quando da ventenne è stato mandato dalla madre su un’espedizione geologica: un’esperienza che ha senz’altro acuito la sua sensibilità da poeta per il “linguaggio” del fuoco, della pioggia e degli elementi in genere27.

Lo straniero dice poi che ci manca la fede nella natura, in noi stessi, siamo diffidenti, inquieti e non troviamo tempo per riflettere. Parla della presenza silenziosa degli alberi che stanno fermi, mentre noi uomini, inquieti, corriamo qua e là. Come conferma involontaria di quello che sta dicendo il suo sguardo va distrattamente e frettolosamente in tutte le direzioni, ma la cinepresa, e con lei la donna, lo osserva attentamente. Lei gli chiede: «Ma non è forse un po’…?» «Ma no, non c’è pericolo, sono un medico.» «E la corsia no.6?» «Ma ché, sono solo fantasie di Čechov!» Infatti con la sua cravatta a mezz’asta fa pensare alla noncuranza per la sua apparenza di uno dei due caratteri principali del famoso racconto di Čechov, il dottore Andrej Efimyc Ragin: anche lui un medico in una cittadina di provincia che è affascinato da un malato mentale in un reparto chiuso, appunto la corsia no. 6, perché a lui sembra l’unica persona con cui si può avere una conversazione intelligente in questa cittadina. Il medico nel racconto di Čechov arriva alla conclusione che tra dentro e fuori del manicomio non c’è differenza, e poi, alla fine, dopo qualche attacco di disperazione finisce lui stesso ad essere rinchiuso nella corsia no. 6. La donna ha apparentemente il sospetto che lo straniero abbia qualche problema di questo tipo28. L’uomo sconosciuto riparte invitandola a visitarlo a Tomcino perché nel suo ospedale c’è gente allegra. Lei gli fa notare che ha del sangue dietro l’orecchio. Si vede che era più attenta persino della cinepresa. È un’osservazione, come si dice, tipicamente femminile che sá un po’ di premura materna. Si è appena incamminato quando arriva una ventata improvvisa e violenta. L’uomo si gira e guarda in dietro, rimane un po’ indeciso, poi segue un’altra ventata. Tarkovskij ha commentato questa scena del vento, procurato coll’aiuto di un elicottero, dicendo che volevano continuare il filo invisibile che legava queste persone. Girarsi senza il vento e guardare “con espressività” avrebbe dato un tocco sbagliato29. Era una trovata felice e geniale perché queste ventate hanno la forza di sollevare tutto ciò che nella scena precedente sapeva di pesante e di trasformarla in qualcosa di poetico. In fondo era un’occasione mancata di un incontro tra due persone e faceva vedere che circostanze effimere – come il fatto che un uomo incontra una donna bella e sola o una donna un uomo non particolarmente simpatico – possono complicare la vita e ostacolare una vera comunicazione. Che l’uomo nella lontananza guarda ancora in dietro era da lungo previsto. Già in febbraio del ’73 ed in dicembre dello stesso anno, cioè molto prima che i lavori concreti per il film cominciassero, apparivono nei diari come possibili titoli del film Perché te ne stai lontano? e Perché resti in disparte? 30 Qui l’autore va contro tutte le regole di una drammaturgia convenzionale che avrebbe sollecitato simpatia per un personaggio che doveva fungere da legame col spettatore.

Così questo episodio assume il ruolo di un invito alla comunicazione: il film, e in modo particolare questo film, ci offre la possibilità di entrare nel mondo dell’autore senza gli ostacoli di circostanze diverse. Il regista voleva la comunicazione con chiunque: «Perché te ne stai lontano?»

Nell’introduzione all suo libro Tarkovskij ha citato varie lettere, che erano state scritte come reazioni a questo film: alcune riflettono incomprensione e anche indignazione, ma altre genuina felicità, come qualcuna che ha scritto di essersi sentita per la prima volta non sola. Ed erano persone semplici che potevano scrivere queste cose, come ad esempio una operaia. Senz’altro tra i film di Tarkovskij Lo Specchio è il più irrazionale che richiede soprattutto una risposta emotiva. C’è ad esempio un particolare nel film che persino il regista stesso non ha capito, come ha ammesso in una intervista del ’8531. Da un lato Tarkovskij voleva essere compreso, da un altro sembra che abbia detto che bisogna lasciare degli enigmi che nei millenni si tenta di decifrare32. Era nemico di quel razionalismo che ha portato al materialismo, all’appiattimento nella nostra percezione della realtà, voleva salvaguardare il mistero. Ed il vento, che in questa scena trasporta il silenzio, certamente è misterioso. Per tutto il mondo che conosce qualcosa della Bibbia il vento è del resto una forte allusione allo Spirito.

Il film prosegue con la recitazione di una poesia del padre, Arsenij Tarkovskij, che parla dei Primi Incontri tra lui e la madre, tutt’altro che banali, siamo quasi ai livelli del Cantico dei Cantici, vediamo immagini dei bambini al tavolo della colazione, uno di loro fa scendere con la mano come una clessidra dello zucchero sulla testa di un gattino, vediamo il volto mesto della madre, accarezzato da ciocche sottili di un biondo più chiaro; eppure finisce la poesia con un’immagine orribile del fato: “Quando il destino ci seguiva passo a passo/ come un pazzo con il rasoio nella mano.”33 Ci troviamo bruscamente confrontati col realismo duro dei due Tarkovskij, padre e figlio, che concede nulla al sentimentalismo. Dando la colpa al destino il padre forse evita di assumersi la responsabilità per la fine di quest’amore.

III

La terza scena è nel film Nostalghia (1983) e fa vedere un avvenimento spettacolare nella Piazza del Campidoglio a Roma: c’è un comizio di malati mentali e Domenico, il matematico pazzo, è salito sul monumento equestre di Marco Aurelio e dopo un discorso – come veniamo a sapere – pressoché interminabile34, si dà fuoco e muore per protesta. Per restauro il monumento era sormontato da impalcature e così si poteva salirci sopra. Dubiterei che ad esempio in Germania sarebbe stato concesso il permesso per queste riprese, a parte la considerazione se abbiamo piazze allo stesso livello artistico. Evidentemente esiste o esisteva in Italia un rispetto per il lavoro artistico che permetteva la cosa. (Il sindaco di Roma era all’epoca un comunista, se non sbaglio.) Si potrebbe chiedersi quanto realistico fosse un comizio di questo tipo per giornate intere in una piazza così importante. Ma se Tarkovskij ha ottenuto il permesso di filmare questa scena, forse anche Domenico e i suoi compagni avrebbero ottenuto il permesso per un comizio del genere.

Tarkovskij non ha fatto nulla per rendere visibile il lavoro geniale di Michelangelo in questa piazza – del resto, come sarebbe possibile?- ma se ne serve per dare risalto storico alla scena. Questa infatti è la piazza che con Marco Aurelio simboleggia l’autorità civile. Si aggiunga a questo che Roma è il simbolo del caput mundi, quindi Domenico si rivolge con il suo discorso e la sua azione a tutto il mondo35.

In uno dei molti lunghi intervalli forzati al lavoro che deprimevano il regista, Tarkovskij scrisse già nel settembre del 1970 nel suo diario una lunga lamentela angosciosa sullo stato dell’umanità giungendo alla conclusione: «La grandezza dell’Uomo contemporaneo sta nella protesta. Gloria a colui che si dà fuoco per protesta davanti alla folla ottusa e priva di occhi, a colui che protesta sulle piazze con cartelli e slogan, affrontando l’inevitabile repressione e a tutti coloro che dicono no ai approfittatori e ai senzadio.» (9.9.)36

Come fosse arrivato all’idea piuttosto estrema dell’autoimmolazione è incerto. È possibile che conoscesse già il famoso film di Ingmar Bergman Persona (1966): la scena in cui una delle due protagoniste del film (Liv Ullmann) guarda inorridita l’autoimmolazione di un monaco buddista in Vietnam alla televisione37. È anche possibile che attraverso il Samizdat abbia saputo dell’autoimmolazione del giovane studente ceco Jan Palach il 16 di gennaio 1969 sulla piazza San Venceslao a Praga.- Domenico esclama: «Quale antenato parla in me?» Potrebbe essere una domanda di Tarkovskij. Si era interessato dei “vecchi credenti” che nel tardo Seicento erano stati perseguitati in Russia e in parte si erano incendiati38. Forse anche la fine sul rogo del domenicano (quindi membro del Ordo Praedicatorum) Girolamo Savonarola ha occupato l’immaginazione del regista39.

Tarkovskij voleva, a quanto pare, che questa scena in piazza del Campidoglio avesse lo stesso impatto che della scena alla televisione in Persona. Il fatto nel film di Bergman è così orribile perché questo monaco veramente si stava bruciando, mentre nessuno sarebbe stato sorpreso di vedere Erland Josephson, l’attore che impersonava Domenico, in discreta salute durante una immaginaria conferenza stampa dopo l’uscita del film.

Il regista ha escogitato un’espediente davvero singolare. Quando Domenico con l’accendino in mano si accinge ad eseguire l’azione, la cinepresa si concentra su un folle ai piedi del monumento che imita le azioni di Domenico in pantomima. Non vediamo quindi tanto in diretta il prendere fuoco, il crollo ed gli spasmi di Domenico, ma nella pantomima di questo pazzo. In questa maniera rientra nell’inquadratura il fatto che prendiamo la scena non per reale ma come fittizia e viene così problematizzato. In questa maniera, per un attimo, viene messa in discussione questa nostra convinzione.

Geniale in questa scena è anche l’uso della musica. Già durante la visita di Gorčacov nella fabbrica abbandonata abitata da Domenico, quest’ultimo ha fatto sentire un pezzo della Nona Sinfonia di Beethoven e in quest’occasione ha annunciato enigmaticamente che si stava preparando qualcosa di importante a Roma.

Alla fine del suo discorso dal monumento esclama: “E adesso la musica!” Tra la gente sulle scale nei intorni della piazza che ha finora assistito immobile all’avvenimento c’è un po di movimento. Qualcuno sale sull’impalcatura del monumento e porta una scatola metallica rettangolare che in un primo momento poteva sembrare un altoparlante, dal momento che si parlava di musica, ma poi si capisce che è un barattolo di benzina. La musica si fa aspettare. Domenico svuota il barattolo su di sé e tenta di accendere l’accendino. Qualche secondo tenta invano, poi, improvvisamente, vediamo le fiamme e in simultanea “divampa” la musica: non è un inizio liscio e piano, ma un prorompere espressivo. Tarkovskij ha accostato fuoco e musica in modo da realizzare una sinestesia. Sentiamo il coro della Nona Sinfonia di Beethoven. Ma proprio quando l’inno alla gioia di Friedrich Schiller arriva alle parole: «Alle Menschen werden Brüder – tutti gli uomini diventano fratelli» la musica muore e sentiamo solo l’urlo inarticolato di Domenico.40

Sorprende l’audacia con cui Tarkovskij si comporta di fronte a due altri geni. Claudio Abbado, che nell’83 ha realizzato insieme con il russo il Boris Godunov di Modest Mussorgskij a Londra, ha sottolineato l’estremo rispetto per la musica che secondo lui contraddistingueva il regista41. Qui tratta Beethoven e Schiller in modo quasi temerario42, ma in questo modo mette in luce un piccolo particolare che i due autori nella foga del loro entusiasmo illuministico avevano trascurato o semplicemente ignorato: che la fratellanza universale ha un prezzo. Gesù Cristo, che ha pregato per l’unità tra tutti gli uomini, ha pagato per ciò con il suo grido di abbandono in croce e la suo morte; un nesso che è stato messo in luce da Chiara Lubich in un libretto dell’8443, Tarkovskij – con la sua intuizione artistica – ha toccato questo mistero. (Nel suo discorso Domenico ha anche parlato d’unità 44, già nella conversazione con Gorčacov nella sua fabbrica aveva usato l’esempio di due gocce d’olio che formano una goccia più grande.)

Dopo il suo grido sembra che Domenico muoia. C’è un taglio e vediamo Gorčacov a Bagno Vignoni che si prepara ad attraversare il antico bagno termale ora senz’acqua45, per rimanere fedele alla promessa data a Domenico. Poco prima nel film, nei ruderi di una chiesetta invasa dalla palude, viene recitata in traduzione italiana una poesia di Arsenij Tarkovskij che crea un nesso tra l’azione di Domenico e quella di Gorčacov:

«…E non più quando è notte/ alle mie spalle splendono due ali./ Nella festa candela mi sono consumato./ All’alba raccogliete la mia disciolta cera/ e lì leggete che piangere è di cosa andare superbi./ Come donando l’ultima porzione di letizia/ morire in levità e al riparo di un tetto di fortuna./ Accendersi postumi come una parola.»

C’è difatti un attimo in cui le fiamme dietro Domenico sembrano delle ali, e il monumento equestre si trasforma in Pegaso, un monumento alla poesia, mentre Gorčacov si consuma come candela46. L’ultima parola della poesia è particolarmente felice e la auguriamo sia al padre poeta che al figlio regista: «accendersi postumi come una parola.»

A differenza dell’azione di Domenico l’azione del russo non è per niente spettacolare, si svolge in presenza di due o tre testimoni, ma non meno assurda. Ci accorgiamo che la salute di Gorčacov è pessima: si appoggia spossato sul bordo della vasca e pesca con la mano la medicina dalla borsa del suo vecchio cappotto. Gorčacov avanza lentamente proteggendo la fiamma della candela con estrema cautela. A metà strada si spegne la candela, lui ritorna al punto di partenza, riaccende la candela, tocca il muro – come in un gioco da bambini – e riparte. Stavolta la fiamma resta accesa più a lungo, ma poi di nuovo si spegne. Quasi non ce la fa a ritornare Gorčacov, ma ritorna comunque e riparte una terza volta. Questa volta riesce ad arrivare all’altro lato del bacino, riesce ancora a fissare la candela accesa sul muro e muore sfinito. L’attore Oleg Jankovskij ha raccontato anni dopo come Tarkovskij gli aveva chiesto di rappresentare in questa scena tutta la vita di un uomo47. Nel suo diario subito dopo il passo citato sopra Tarkovskij aveva scritto: «Elevarsi al di sopra della semplice attitudine a vivere, prendere coscienza praticamente della corruttibilità della nostra carne in nome del futuro, in nome dell’immortalità…»48 Il gesto escogitato da Domenico è da vedere in contrasto con il vivere tranquillo e sonnolento nell’annebbiamento del bagno termale che avevamo visto molto prima nel film e che Domenico, guardando queste persone per bene immerse fino al collo nell’acqua tiepida, aveva commentato: «Vogliono vivere eternamente!» La candela accesa è un’immagine per la vita interiore, la fede che bisogna custodire, mantenere. L’esistenza è vista così come una prova per un tempo limitato49.

La pazzia che ha portato al suicidio Domenico ha anche l’aspetto di una protesta contro una società satura, spiritualmente atrofizzata. L’immobilità surreale delle persone radunate nella piazza del Campidoglio, il loro concentrarsi su se stesse, evidenziato per esempio nella donna tutta concentrata sul piccolo specchio rotondo da make-up o in un uomo che è in posa come per un monumento della propria importanza, è da vedere come un parallelismo con il sogno del musicista russo Sosnofskij che viveva in Italia qualche secolo fa. La lettera che racconta il sogno viene letta nell’albergo a Bagno Vignoni: Aveva sognato che doveva preparare una grande opera lirica nel parco del suo padrone, il conte. Nel primo atto doveva come tanti altri rappresentare una statua nuda, dipinta di bianco. Non dovevano muoversi assolutamente perché il conte, che li osservava personalmente, minacciava gravi punizioni in questo caso. Sosnofskij sentì salire il freddo e le forze gli vennero a mancare quando si svegliò tutto angosciato perché si era accorto che non era un sogno, ma la sua realtà50. È la realtà dell’occidente come era sperimentato da un russo un po’ di tempo fa. Probabilmente molti di noi esiterebbero a riconoscersi in questo specchio, eppure bisogna ammettere che il sogno del musicista russo ha qualcosa di molto convincente. Forse dobbiamo vivere con questa provocazione51.

Tarkovskij colpisce lo stesso chiodo con un’altra scena: quando Gorčiacov vuole parlare con Domenico va, accompagnato da Eugenia, alla vecchia fabbrica. Davanti alla porta il pazzo sta pedalando una vecchia bicicletta stazionaria e non smette neanche quando Eugenia si avvicina per parlare con lui. Perché sta pedalando? Essendo lui pazzo non c’è da meravigliarsi tanto. Forse era una canzone del noto cantautore russo Vladimir Vysockij a ispirare a Tarkovskij quest’idea. Vysockij, che dopo «una vita spericolata» morì nel ’80 a solo 42 anni, nel ’68 aveva preso di mira nella canzone sarcastica Ginnastica coloro che, appunto, «vogliono vivere eternamente».

L’uomo sulla bicicletta statica evoca l’immagine del criceto nella ruota e così nell’immaginazione si aumenta la velocità del movimento: tanta agitazione che non va da nessuna parte. Il culto della frenesia del fare, nel cinema e nella vita vissuta, è oggi forse più forte che nei giorni di Tarkovskij. Tutti vogliono essere uomini di azione, muovere qualcosa. La “vis polemica” del russo non ha perso di attualità, anzi! Anche questo mostra la forza profetica della sua arte.

Rimarrà un mistero se Domenico è veramente pazzo o piuttosto un pazzo finto52, un jurodivyi, un “folle in Cristo” nella tradizione della vecchia Russia che provoca la mentalità vigente con le sue azioni strane. Ma chi sta provocando Domenico? Solo Eugenia e Gorčacov lo vedono. E tutti quanti che vedono il film. Tarkovskij anche in altri suoi film si è rivolto direttamente al suo pubblico e ciò è contro il “bon ton” del cinema, certo. Il vero jurodivyj in azione è quindi il regista stesso53. Un’altra provocazione: Gorčacov che, sfinito, con passo titubante procede nel bacino vuoto (e ci ruba alcuni minuti lunghissimi del nostro tempo prezioso) sembra essere uno dei pochi che compiono un’azione in questo film.

Tatjana Goritcheva vede i filosofi kinici dell’antica Grecia come precursore dei jurodivyi russi54 e il più noto tra loro era Diogene. Le scene a Bagno Vignoni ed in piazza del Campidoglio sono in contemporanea. Si può immaginare una sovraimposizione delle due scene: Gorčiacov che con la candela accesa va in piazza del Campidoglio in cerca di «un uomo», come Diogene sul mercato di Atene55.

In piazza del Campidoglio il film finisce con un cenno conciliatorio: quando Domenico muore sdraiato si vede nella lontananza Eugenia arrivare di corsa sugli scalini della piazza, la mano alzata al volto in terrore. Eugenia, l’interprete, che si era prima manifestata inesorabilmente “occidentale”, fa ora vedere una reazione umana. Così il regista, che in genere non amava le mezze misure, finisce questa scena con uno spiraglio di speranza56.

1 Vida T. Johnson, Graham Petrie, The Films of Andrei Tarkovsky A Visual Fugue, Indiana University Press 1994, p.303, nota 14: “According to the cameraman Vadim Yussov, Tarkovsky broke his own rule of ‘no surprises during shooting’ by throwing the geese in front of the camera without warning.”

2 “panic-stricken townspeople milling confusedly in slow motion, their vulnerability accentuated by geese that enter the frame from above, flapping clumsily and awkwardly downwards.” op. cit. p. 95

3 Tarkovskij, A., Končalovskij, A., Andrej Rublëv. Sceneggiatura del film, Maggioli Editore Santarcangelo di Romagna, 1983

4 C’è un particolare nel film (nel terzo episodio) dov’è rimasta un’altra traccia minima del capitolo sulla caccia dei cigni: Quando Rublëv nella foresta incontra il grande pittore di icone Teofane il Greco, il suo aiuto, Foma, trova il cadavere mezzo decomposto di un cigno e mostra, estendendola, la meraviglia di una sua ala. Tipico per Tarkovskij mi sembra che scopre il bello nell’apparente bruttura. Qui si deve ricordare che Tarkovskij per tutta la vita era affascinato da Leonardo da Vinci: anche i disegni di Leonardo dedicati al sogno del volare, per la costruzione delle ali avranno contribuito a questo fascino. Tarkovskij ha parlato della sua ammirazione per Leonardo nell’ultima sua intervista, concessa a Le Figaro in ottobre del ’86. C’è una traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e si trova su questo sito: http://www.fralenuvol.it/albero/arte/tarkovskij

5 Nel film Solaris (1972) la caccia appare come simbolo dello smarrimento dell’uomo. Il quadro di Pieter Bruegel Il ritorno dei cacciatori (Kunsthistorisches Museum, Vienna, 1565) indica che l’uomo ha perso il posto giusto nella creazione. L’allusione al famoso quadro di Rembrandt del Ritorno del figlio prodigo (Eremitage, San Pietroburgo, 1668) alla fine di Solaris,che mostra la visione del ritorno nella casa paterna, è da vedere insieme con il quadro di Bruegel. (Allusioni alla caccia sono in Solaris sia nella scena sognata del ritorno alla madre, sia nella casa del padre corni da caccia appesi alla parete.) Anche l’aspetto dell’invidia come motivo inconscio della caccia è sparito. All’ interno del Rublëv poteva avere un suo significato, perché nel “prologo” del film viene mostrato il volo come un sogno dell’umanità che porta però ad un fallimento brutale.

6 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri Milano 1995, p. 63

7 «L’orribile è sempre racchiuso nello stupendo, così come lo stupendo è racchiuso nell’orribile… La vita è compenetrata dal lievito di questa contraddizione grandiosa fino all assurdo che nell’arte si presenta in una unità contemporaneamente armonica e drammatica.»

«Perciò l’immagine artistica non può essere unilaterale, per potersi dire veridica deve riunire in se stessa la contradditorietà dialettica dei fenomeni.» Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, op.cit. p.38 s.) Sull’ Internet si trovano diversi siti di cui gli autori si sono ispirati a queste parole. Come era da temere ivi si trova tanto di orribile e poco di stupendo.

8 Poesie giapponesi di diciasette sillabe; A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, p. 98

9 Vedi l’articolo in italiano su Du Fu in Wikipedia; Reinhard Emmerich. Östliche Han bis Tang. in: Reinhard Emmerich (Hg.): Chinesische Literaturgeschichte. Stuttgart/Weimar: Metzler 2004, pp. 88–186

10 Scolpire il tempo, p. 98

11 Anche nell’episodio della festa pagana del Rublëv nella foresta ad un certo punto volano su uccelli bianchi. In questo caso il fatto contribuisce alla “magia” della scena, ma non ha la stessa densità di significato come nella scena qui analizzata.

12 Paragoni di questo tipo sono evidentemente ammissibili solo in grosso modo: la poesia classica cinese ha la fama di essere di un rigore formale e di una ricchezza “musicale” che – almeno in genere – non conosciamo.-

Del fatto che il genio abbia a che fare con la grazia Tarkovskij era cosciente. Per illustrarlo basta citare un’episodio che racconta nei diari, Martirologio. Diari 1970 -1986, Firenze 2002, il 6 aprile 1973: «Chissà perché ho ripensato a quando avevo perduto il manoscritto della sceneggiatura del Rublëv (di cui non possedevo neanche la minuta). L’avevo lasciato in un taxi all’angolo di via Gorkij (di fronte all’albergo Nazionale). Il taxi se n’era andato e io per la disperazione mi sono preso una sbronza. Dopo un’ora sono uscito dal Nazionale e sono andato al VTO. Due ore dopo, mentre scendevo per via Gorkij, all’altezza di quello stesso angolo della strada dove avevo perso il manoscritto, vedo un taxi che (andando contromano) mi ha raggiunto, frena e l’autista dal finestrino mi tende il mio manoscritto. Se non è un miracolo questo…» Al Meeting di Rimini dell’83 ha raccontato la storia delle «due bottiglie di cognac» a circa 18000 partecipanti di CL (cf. Andrej Tarkovskij, Diari, op.cit., 27 agosto 1983) Tarkovskij aveva iniziato i lavori per il Rublëv con la consapevolezza di questo miracolo.

13 Nei diari si vede che nella mente di Tarkovskij il titolo Il ruscello pazzo per il film ha avuto una breve fortuna ( Diari, 23 dicembre 1972: «Sembra che mi diano il via per Un bianco giorno che ho reintitolato Il ruscello pazzo. Non passerà, probabilmente, peccato!»)

14 «Non so cosa ne sarebbe stato del film se il campo di grano saraceno non fosse fiorito…» A.Tarkovskij, Scolpire il tempo, op.cit., p. 124

15 Schmatloch, Marius: Andrej Tarkowskijs Filme in philosophischer Betrachtung, Remscheid 2003; l’autore vede Tarkovskij come solipsista.

16 Simonetta Salvestroni ha tradotto la fine di una poesia di questo titolo del padre Arsenij Tarkovskij: «[…] mio padre sta sulla soglia/ luminoso, luminoso giorno […] Non sono mai stato / Felice come allora. / Tornare là non è possibile / Né è possibile raccontare/ come era pieno di beatitudine questo paradiso.» Simonetta Salvestroni, La tradizione culturale e spirituale russa nel cinema di Andrej Tarkovskij («Rublëv» e «Lo specchio») AAM TAC 1, Arts and Artifacts in Movie – Technology, Aesthetics, Communication Nr.,1Giovanni Morelli (direttore) Istituti editoriali e poligrafici internazionali Pisa-Roma, 2004, pp. 13- 40, p. 28

17 Un fatto che sottolinea la veracità del regista, il suo senso acuto della fugacità della bellezza, della vita. Questo motivo della fugacità ritorna altre volte nei film di Tarkovskij nonostante la loro esasperata lentezza. Per esempio nello Specchio una tazza di the levata da un tavolo lascia una macchia di umidità che lentamente svanisce. Un fatto banale, quotidiano, però drammatizzato dal suono di un synthesizer con un volume gradualamente aumentato. Poco prima una signora misteriosa seduta a questo tavolo aveva chiesto al ragazzo Ignat di leggere in un libro un passo della corrispondenza tra Puškin e Čaadaev, ma lo ammoniva di non perdere tempo; proprio sfogliando i libri si perde facilmente e volentieri tempo. –

Tarkovskij ha posto al centro del film una poesia del padre Vita, vita che coniuga, in palese contraddizione, la convinzione dell’immortalità e questa fugacità: “...Non esiste la morte./ Immortali siam tutti e tutto è immortale./Non si deve temere la morte né a diciasette/ Né a settant’anni./Esistono solo realtà e luce … le tenebre …e la morte non vi sono. ” ma la poesia si conclude così: “Per un angolo sicuro di tepore/ darei la vita di mia volontà/ qualora la sua cruna alata/ non mi svolgesse più,/ come un filo,/per le strade del mondo.”

18 Roberto Calabretto, La musica nel cinema di Andrej Tarkovskij, pp.13-33 in : L’aurora immortale, Le arti e il cinema, a cura di Neil Novello, Bologna 2004; qui p. 22 s.

19 Ad ispirare quest’immagine era probabilmente una fotografia luminosissima della madre giovane, seduta su una balustrata di legno con un vestito bianco e i capelli anche in un chignon; dietro a lei betulle giovani, snelle, primaverili. Forse questa foto ha contribuito anche all’idea del titolo Un bianco, bianco giorno. La foto si trova nei Diari, op. cit., p. 126

20 Tarkovskij ha spiegato questo ed altro nel capitoletto Sull’attore del cinema, in Scolpire il tempo, op.cit. pp. 134 -145, sulla scena in questione, p. 132

Diari, 14. 4. 73: «Leggo le lettere di Bernard Shaw: ‘Non è sorprendente che il peccato che meno si perdona a un attore sia di essere davvero quello che impersona, invece di limitarsi a impersonarlo?’»

21 Vedi l’articolo in italiano su Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Andrej_Tarkovskij), dedicato a Tarkovskij che giudica l’attrice nel ruolo dell’interprete Eugenia «inespressiva». Domiziana Giordano, che in certe scene del film sembra una marionetta, coll’andare del tempo verrà rispettata, così mi pare, per la sua personalità poliedrica e anche per il suo contributo a questo film. –

22 Siamo arrivati, un’po prima del previsto, alle contraddizioni. Nostalghia doveva essere un grido d’allarme ed una poesia monumentale (quasi) ermetica allo stesso tempo. Le due cose si escludono mutualmente, si direbbe. Invece a me sembra che “la quadratura del cerchio” sia riuscita.- Tarkovskij cita nel suo libro Dostoevskij per dire che l’arte non deve imitare la vita. Essa stessa crea una vita per certi versi superiore alla vita stessa: «l’arte, dicono, deve rispecchiare la vita eccetera. Sono tutte sciocchezze: lo scrittore (il poeta) crea lui stesso la vita, e una vita tale, per di più, che prima di lui neppure esisteva in tutta la sua pienezza.» (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, p.171) In genere si accettano nei film le cose più inverosimili. L’accusa di mancante realismo spesso viene fatta quando un film per qualche altro motivo non va a genio.

23 Aver trovato l’attrice Margarita Terechova per Tarkovskij era provvidenziale. Lui dice di lei che provoca nello spettatore reazioni contrastanti di attrazione e ripugnanza allo stesso tempo. Il regista ha inserito nel film un quadro di Leonardo da Vinci, il ritratto di Ginevra de’Benci (c. 1474, Olio su legno, 38.1 cm × 37 cm, National Gallery, Washington, D.C.) perché anche questo ha l’effetto di provocare reazioni contrastanti. La pagina su questo quadro è tra le più misteriose del libro. (A. Tarkovskij , Scolpire il tempo, op.cit. p. 100) L’attrice impersona nel film sia la madre Masha che la prima moglie (divorziata) Natalja. Bisogna ammettere che il regista fa vedere nel ruolo della madre di piú i tratti attraenti, nel ruolo della moglie piú i ripugnanti.

24 Per l’antieroicità dei caratteri preferiti da Tarkovskij cf. Fabrizio Borin, L’arte allo specchio, Il cinema di Andrej Tarkovskij, Roma 2004, p. 60 s.

25 Natasha Synessios, Mirror, London 2001, p.21

26 Fa pensare al discorso slegato eppure memorabile del scienziato “impazzito” Domenico sulla piazza del Campidoglio a Roma in Nostalghia (1983): «…bisogna che nei cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti. Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno.»

27 In questo senso si esprime anche Simonetta Salvestroni con i suoi commenti molto attinenti, op.cit., p.27: «Nel momento in cui percepisce l’affinità fra la sua esistenza e quella del mondo vegetale, l’unità dell’universo percorso da un unico flusso vitale, il personaggio coglie qualcosa di essenziale per il protagonista e per l’autore di Zerkalo. Non credere nella natura – ovvero essere indifferenti alla sua presenza nella nostra vita – è una perdita grave: significa smarrire il significato del nostro essere al mondo, dei legami che ci uniscono a tutto ciò che vive.»

Il slavista americano Robert Bird ha ordinato un suo libro su Tarkovskij secondo i quattro elementi: fuoco, acqua, terra e aria. (Robert Bird, Andrei Tarkovsky. Elements of Cinema, London 2007). Un altra eccezione è: Sean Martin, Live in the House and the House Will Stand: The Role of Autobiography and Lived Experience in Tarkovsky’s Films and Aesthetic, p.6 – 39 in Through the Mirror: Reflections on the Films of Andrei Tarkovsky, edited by Gunnlaugur A. Jónsson and Thorkell Á. Óttarsson, Cambridge 2006, p. 9: “He walked many hundreds of miles along the river Kureika, where he spent a lot of time drawing and thinking… his year in the Siberian taiga would serve as a dramatic base line for nearly all his subsequent work: nature is ever present in his films – often celebrated, always mysterious – as is the lone protagonist, struggling to make sense of his own destiny and, in the later work, that of humanity as a whole.“- Sullo sfondo dell’esperienza nella taiga diventa anche comprensibile il discorso ricorrente della banalità dei nostri discorsi e l’attrattiva del silenzio: Andrej Rublëv fa una specie di voto di tacere che abbandona alla fine del film. In questo caso il silenzio è interpretato in chiave negativa. Ma nello Specchio dice l’io, Alexej, alla madre che per alcuni giorni non ha parlato per via di un’angina e parla della “debolezza” delle parole. In Offret il figlio di Alexander ha avuto un’operazione alla gola e ricomincia solo alla fine del film a parlare. Il medico Victor ricorda che Gandhi soleva tacere un giorno alla settimana.

28 Mentre il doppiaggio italiano e i sottotitoli inglesi menzionano il nome di Čechov, il doppiaggio tedesco riporta solo la domanda di lei: «E la corsia No. 6?» Risponde il medico: «Ah, lui l’ha solo immaginato.» Suppongo che è la versione più fedele all’originale. È, quindi, un’allusione che facilmente si sorvola. Certo, Čechov era un scrittore dell’Ottocento, non contemporaneo, ma se si tiene in mente che all’epoca del film in Unione Sovietica si mandavano i dissidenti nei riparti chiusi degli ospedali psichiatrici, bisogna dire che Tarkovskij qui giocava con il fuoco. Ha continuato a giocare anche in Stalker ed in Nostalghia, non per giocare, ma perché per lui l’arte doveva essere verace. Scrive anche in questo senso Alessio Scarlato, La Zona del Sacro

L’estetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, Palermo 2005, p.16: «Marija ironizza al discorso del dottore, paragonandolo al medico di Čechov ne La corsia n.6. Questa era un reparto di un ospedale per malattie mentali, dove la“pazzia” del protagonista, il dottor Ragin, veniva certificata dal suo dedicarsi a conversazioni sui “massimi sistemi” con un internato. ‘Quella è solo l’immaginazione di Čechov’, afferma il passante, sottolineando implicitamente al contrario l’attualità in epoca staliniana della carcerazione per malattia mentale per chi si occupasse di “massimi sistemi”.» In epoca staliniana si aveva metodi più radicali: o la morte o la Siberia. Era negli anni settanta che ospedali psichiatrici per dissidenti erano di moda.

29 A. Tarkowskij, Scolpire il tempo…, op.cit. p. 117, verso la fine del capitolo sull’immagine filmica.

30 Cf. A. Tarkovskij, Diari, 4 febbraio 1973, 12 dicembre 1973

31 Jerzy Illg e Leonard Neuger, I’m interested in the problem of inner freedom in traduzione inglese sul sito Nostalghia.com; l’versione in polacco: Z Andriejem Tarkowskim rozmawiają Jerzy Illg, Leonard Neuger, in Res Publica (1), Warsaw 1987, pp. 137–160. «There is one episode in the film in which the boy, Ignat, is sitting… not Ignat… what was his name? — the author’s son, he is sitting in his father’s empty room, in the present, in our times. This is the narrator’s son although the boy plays both the author’s son and the author himself when he was a boy. And as he is sitting there we hear the doorbell, he opens the door and a woman enters and she says: ‘Oh, I think I’ve got the wrong place’ – she was at the wrong door. This is my mother. And she is the grandmother of this boy who opens the door for her. But why doesn’t she recognise him, why doesn’t the grandson recognise her? – one has completely no idea. That is – firstly, this wasn’t explained by the plot, in the screenplay, and secondly – even for me this was unclear.- (C’è un episodio che Ignat, il figlio dell’autore, è seduto nell’appartamento del padre nel presente, nei nostri tempi. … Sentiamo il campanello della porta, lui apre, c’è una donna e lei dice:’O, mi sembra che sono al posto sbagliato’ era alla porta sbagliata. È la mia madre. Ed è la nonna del ragazzo che apre la porta per lei. Ma perché non lo riconosce, perché il nipote non riconosce lei?- non si ha minima idea di questo. Non era spiegato nella sceneggiatura – anche per me non era chiaro.)» Il fatto che la nonna non riconosce il proprio nipote e viceversa è qualcosa di molto doloroso, ha qualcosa di un incubo. Il film è organizzato con la logica dei sogni che possono essere più o meno belli.

32 Daniela Fanelli e Vittorio della Torre, Andrej Tarkovskij, poeta dell’immagine, Città Nuova, 25 gennaio 1987, pp. 26-29, qui p.29: «L’uomo, ha detto, deve aspirare alla grandezza spirituale, costruire piramidi, lasciarsi dietro qualcosa che obblighi chi lo seguirà a decifrare per millenni gli enigmi…». In verità, nell’intervista con Charles H. de Brantes (l’attuale direttore dell’ Institut Andreï Tarkovski di Parigi), aveva parlato di milioni di anni, propenso all’esagerazione come era; cf. John Gianvito, Andrei Tarkovsky Interviews, 2006, Mississippi University Press, p. 182

33 Pervye svidanija, in A. A. Tarkovskij, Poesie scelte, traduzione di Gario Zappi, Milano 1989; la traduzione italiana della poesia si trova sull’Internet almeno una dozzina di volte. Molto bello il commento di Simonetta Salvestroni, op.cit. p. 29: «Mentre lo spettatore ascolta questi versi, ricordati dalla madre dopo l’incontro con lo

sconosciuto, che ha risvegliato la sua femminilità, la macchina da presa segue la donna nel suo rientro in casa e si sofferma a inquadrare gli angoli di questo interno, le sue luci e le sue ombre, il tavolo, le “cose semplici” trasfigurate nella poesia perché legate all’intimità dei rituali di un amore vissuto come un’epifania (bogojavlenie).»

34 Eugenia, l’interprete, dice al telefono a Andrej Gorčacov che Domenico sta predicando a Roma ore e ore «come Fidel Castro».

35 Facilmente si associa qui il Capitol a Washington, quindi un centro di potere nel mondo attuale.

36 Andrej Tarkovskij, Diari,op.cit.

37 In una conversazione con il critico cinematografico Leonid Kozlov nel 1972 Tarkovskij ha elencato i dieci film che più ammirava, tra essi anche Persona; Tom Lasica, Sight and Sound, marzo 1993, volume 3, issue 3

38 In una intervista aveva detto di voler fare un film sull’arciprete Avvakum Petrov, il capo dei vecchi credenti; intervista con Aleksandr Lipkov il 1 febbraio 1967; traduzione in inglese di Robert Bird su Nostalghia.com.- Poco prima della comparsa dell’arciprete Petrov c’erano tendenze di vedere nell’autoimmolazione e nel digiuno fino alla morte le uniche strade alla salvezza. Un certo Vasilij Volosatyj propagava queste idee (Gerhard Hildebrand, Protopop Avvakum und das Phänomen der Selbstverbrennung, pp.531 ss. in: Slawistische Studien zum V. Internationalen Slawistenkongress in Sofia 1963, Göttingen 1964)

L’interprete Eugenia racconta a Gorčacov di aver letto in un giornale che una domestica proveniente dal sud dell’Italia aveva „per nostalgia“ messo fuoco alla casa del suo padrone al nord. In interviste Tarkovskij aveva già detto che la nostalghia russa non è un sentimento che può essere anche piacevole, ma un fuoco divoratore. Tarkovskij ha definito la nostalghia russa uno “struggimento che divora”, p. 22 in: Enzo Natta, Andrej Tarkovskij –scolpire il tempo, pp. 20 – 23, in Città Nuova, 10 luglio 1983. Da tutto ciò risulta che l’autoimmolazione di Domenico non è soltanto un atto di protesta come nel caso di Jan Palach ed altri, ma in qualche modo espressione di una “nostalgia spirituale”.

39 Il 21 di febbraio 1972 si trova la breve nota nel diario: “Trovare delle informazioni su Savonarola e sui suoi rapporti con Botticelli.”

40 Qualcuno vuole aver capito che urla il nome del suo cane Zoé, l’unico essere vivente sulla piazza che mostra qualche reazione all’avvenimento, ma non posso confermarlo.

41 Nel documentario di Ebbo Demant, Auf der Suche nach der verlorenen Zeit. Andrej Tarkowskijs Exil und Tod, 1987; si può trovare l’intero documentario su youtube nell’ internet. Abbado parlava tedesco.

42 D’altronde sarebbe stato difficile di inserire questo musica conosciutissima in modo non violento nel film. Dal libro Scolpire il tempo risulta che Tarkovskij ha riflettuto attentamente sull’uso della musica nei film. Il regista ha relativamente tardi deciso di usare la musica di Beethoven; sembra che abbia originalmente pensato al Tannhäuser di Richard Wagner.

43 Chiara Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, Roma 1984, 9 edizione 2005

44 «Il nostro cuore è coperto d’ombra, bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili. […]
Bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.
Se volete che il mondo vada avanti, dobbiamo tenerci per mano, ci dobbiamo mescolare, i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati.
Ehi, voi sani!
Cosa significa la vostra salute? […]
Dove sono, quando non sono nella realtà e neanche nella mia immaginazione? Faccio un nuovo patto con il mondo, che ci sia il sole di notte e nevichi d’agosto.
Le cose grandi, finiscono!
Sono quelle piccole che durano!
La società deve tornare unita e non così frammentata; basterebbe osservare la natura per capire che la vita è semplice e che bisogna tornare al punto di prima, in quel punto, dove voi avete imboccato la strada sbagliata.
Bisogna tornare alle basi iniziali della vita, senza sporcare l’acqua.»

45 Anche il fatto che il bacino termale ora è svuotato lasciando solo del fango malsano parla della transitorietà dell’esistenza.

46 28./29. 4. 80: «lavorato bene con Tonino Guerra “la candela”». C’è una poesia di Tonino Guerra di questo titolo.

47 Oleg Jankovskij, How we shot the ‘Inextinguishable Candle’ episode for Nostalghia, su: Nostalghia.com

48 A. Tarkovskij, Diari, 9 settembre 1970

49 Nel film si sente ripetutamente nella lontananza il suono monotono di una sega circolare (soprattutto nella fabbrica di Domenico). Nell’immaginazione evoca pezzi rettangolari di legno, come è rettangolare il bacino del bagno termale. Il suono della sega diventa così un’allusione che parla della finitezza, della morte.

50 Il testo della lettera si trova in: Fabrizio Borin, L’arte allo specchio, op.cit. il capitolo su Nostalghia, pp. 211 – 227, p. 225 s., nota 22; la lettera è stata inventato da Tarkovskij insieme con Tonino Guerra, il 16. 6. 1980: “Abbiamo costruito la lettera…”

51 Tarkovskij si era sempre più convinto che la civiltà occidentale era in declino. Il 25 di aprile 1980 scrive nel suo diario: «Ieri ho chiesto a Franco Terilli di trovarmi una traduzione russa de Il tramonto dell’Occidente di Spengler.»

52 Così anche nella scena in piazza del Campidoglio non si capisce chi è matto e chi non lo è. Forse il regista vuole dire che una distinzione netta non è possibile e che bisogna «tenersi per mano (…) i cosidetti sani e i cosidetti ammalati..»; cf.: Stefano Redaelli, Il senso della vita (e della follia) in Alda Merini in: Nuova Umanità, Roma, novembre – dicembre 2010, p.196

53 Nel ’76 Tarkovskij ha notato nel suo diario purtroppo senza indicazioni bibliografiche: «Scriveva Tolstoj:

– Se io fossi solo, sarei un folle di Dio, cioè non considerei niente di veramente prezioso in questa vita.

– Anche scrivendo bisogna essere dei folli di Dio.» (20 aprile 1976) Gìà lo Specchio era un po’ un «ruscello pazzo», dallo Stalker in poi Tarkovskij ha intrapreso la strada del jurodivyj con sempre più decisione.

Tatjana Goritcheva ha descritto come negli anni sessanta tra gli intellettuali in Unione Sovietica era molto prestigioso essere considerati dei “schizofrenici”, Tatjana Goritcheva, Die Kraft christlicher Torheit, Freiburg 1985, p.54 s.

54 Tatjana Goritcheva, Cinismo, follia in Cristo e santità, in Nuova Umanità, novembre – dicembre 1989, pp. 47 – 62, p.58

55 Tarkovskij ha parlato di «Diogene con la lampada» nell’ intervista con Jerzy Illg e Leonard Neuger, cf. Nota 30 e quindi si capisce che era una figura familiare nel suo mondo interiore.

56 Tarkovskij era comunque nella sua arte più equilibrato che nelle interviste o anche nel suo libro.

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